di Mario D’Ambrosio
Il neurofeedback è una variante del biofeedback. Sebbene il termine includa pratiche e tecnologie più ampie rispetto alla sola elettroencefalografia (per es., la fMRI), sarà qui usato nella sua accezione più comune e di più ampia disponibilità per la pratica clinica, cioè l’EEG biofeedback. Esso consente di monitorare in tempo reale la propria attività elettroencefalografica, la quale è caratterizzata da onde cerebrali con una specifica morfologia, frequenza e ampiezza (onde beta, alfa, theta, delta, SMR, ecc). Essendo noti i correlati mentali dei diversi pattern EEG (ad esempio la presenza diffusa di onde alfa è tipica di condizioni di rilassamento, l’eccessiva attività theta si associa a scarse capacità attentive, e così via) è possibile migliorare le prestazioni raggiungendo uno stato psicofisiologico cognitivo-emozionale ottimale[1], o trattare alcuni stati disfunzionali (come le difficoltà di concentrazione e i deficit di attenzione presenti nel Disturbo da Deficit dell’Attenzione/Iperattività (o ADHD). Specificamente nel trattamento dell’ADHD e dell’ansia, il neurofeedback nelle valutazioni di Evidence-Based Practice è stato considerato, nel contesto di autorevoli rassegne, come un rimedio classificato tra l’efficace e l’efficace e specifico (Yucha e Gilbert, 2004; Yucha e Montgomery, 2008; Arns e colleghi, 2009; Arns e colleghi, 2014). La frequente e specifica presenza di sintomatologia afferente alle aree dell’attenzione e dell’ansia nei disturbi della fluenza, porta a riflettere sulle nuove opportunità offerte dal neurofeedback per la cura di questi aspetti. Per esempio, alcune ricerche hanno valutato in soggetti con balbuzie una comorbilità che può arrivare fino al 26% (Riley e Riley, 2000) con l’ADHD. Quando invece si adopera un criterio di selezione più ampio, di tipo non diagnostico, ma sufficiente per rilevare soggetti che meriterebbero un eventuale approfondimento diagnostico, i valori possono essere sensibilmente più alti. Donaher e Richels (2012), in loro studio condotto su una popolazione di bambini con balbuzie, hanno monitorato le difficoltà attentive adoperando dei criteri di screening, e in tal caso, la percentuale dei bambini con balbuzie che presentano anche alcuni sintomi dell’ADHD è salita al 58%. Se aggiungiamo che altre ricerche hanno rilevato nella balbuzie correlati elettroencefalografici rapportabili a disturbi conclamati di ADHD (Ratcliff-Baird, 2008), è ammissibile, all’occorrenza, il ricorso alla pratica del neurofeedback per la riduzione di tale sintomatologia, a partire dagli stessi training sviluppati per questi disturbi.
per contatti e appuntamenti: dott. Mario D’Ambrosio
Bibliografia
[1] Il neurofeedback sta travando una sua specifica applicazione anche per il potenziamento delle prestazioni nell’ambito di professioni e attività che richiedono controllo emotivo e capacità di concentrazione (per es., manager, atleti, ecc.). Infatti, oltre ad essere una vera e proria terapia diretta a disturbi specifici, è anche una pratica di crescita personale diretta alle abilità di autoregolazione, per cui è sempre più diffuso il ricorso a training di neurofeedback anche in ambito non clinico.