Dal 2005 ho cominciato a preferire il termine “persona che balbetta” al posto di “balbuziente”. Sì, è più lungo, e all’inizio in qualche frase mi suonava anche un po’ male, ero costretto a riscriverla per adattarla al nuovo termine, ma era una scelta convinta; con il tempo mi sono abituato e ne valeva la pena. Ve ne spiego la ragione. Non ho mai usato la parola “balbuziente” in modo dispregiativo, tuttavia nel dirla avevo la vaga sensazione di fare un piccolo torto alle persone che balbettano. “Balbuziente” è un termine comune, usato a volte in modo offensivo. Include, è vero, la storia di studi e ricerca, ma è anche il termine che si presta ad un uso dispregiativo. D’altro canto se la nostra lingua ci offriva questo, questo si usava. Tuttavia, seguendo la letteratura scientifica internazionale sono stato testimone di una piccola evoluzione culturale negli ultimi anni, in particolare della comunità scientifica americana e che mi piacerebbe vedere attecchire anche in Italia. Da quando Guitar nel 1998 ha posto l’attenzione su come alcuni “stutterers” (in it. “balbuzienti”) preferivano essere indicati come “persons who stutter” (in it. “persone che balbettano” – un termine che rende meglio l’idea che la balbuzie è solo una della caratteristiche di una persona), ho visto che col passare degli anni la nuova terminologia ha sostituito di fatto completamente il vecchio termine nelle comunicazioni scientifiche. Lo scopo di questo mio auspicio è contribuire a scardinare lo stereotipo di “balbuziente” agganciato ad un termine che veicola anche implicazioni emotive e cognitive generalmente penalizzanti, partendo anche dalla quotidianità, comprese le parole che usiamo. Se poi si hanno delle responsabilità più definite come è per un sanitario o un ricercatore, l’impatto culturale del nuovo corso sarà ancora più forte. Non è una critica a chi scrive a parla usando la parola “balbuziente”, tuttora girano miei articoli e schede pubblicate anni fa che sono ancora in uso, nelle quali compare questa parola. Per ovvie ragioni editoriali i lavori pregressi, devono restare uguali. E’ tuttavia una proposta che faccio ai colleghi, ai ricercatori e a chiunque altro si interessi del problema, per avviare un cambiamento nella nostra comunità scientifica. Ho cercato di condividere questo visione tutte le volte che ho condotto corsi di formazione e tutte le volte che ne ho avuto l’opportunità. Sono convinto che si sia seminato abbastanza e che i tempi siano maturi affinché, anche in ambito italiano, si cambi definitivamente il modo di comunicare sulla balbuzie, per cui chiedo alle persone che vorranno, di andare oltre la singola scelta individuale, e di attivarsi anche con azioni chiare di condivisione e promozione del dibattito, affinché anche in Italia si differenzi la comunicazione scientifica dal linguaggio comune, troppo spesso associato al pregiudizio sociale, senza per questo rinunciare alla chiarezza comunicativa.
Mario D’Ambrosio