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Quando Curare la Balbuzie

La balbuzie è curabile a tutte le età e per ogni periodo (infanzia, adolescenza, età adulta) va individuato il trattamento più adatto. Fino a qualche tempo fa, quando si trattava di bambini piccoli, gli specialisti raccomandavano di attendere che il bambino crescesse prima di iniziare la cura. Le ragioni a sostegno di questo atteggiamento attendista sono ormai superate come si può facilmente capire leggendo l’articolo riportato di seguito. In realtà non solo è possibile, ma anche auspicabile iniziare presto un trattamento specifico per l’età prescolare a condizione che sia condotto da operatori esperti e qualificati.

Articolo tratto dalla rivista “I care n. 30:3, pag. 78-83

La cognizione della fluidità/disfluenza nel trattamento della balbuzie nella seconda infanzia

di Mario D’Ambrosio

Introduzione
Poiché nella maggior parte dei casi l’esordio della balbuzie avviene in età prescolare, sembrerebbe naturale che l’attenzione degli operatori fosse rivolta in ampia misura allo sviluppo di programmi di intervento destinati alla seconda infanzia. In realtà l’intervento precoce resta tuttora un argomento controverso e non ancora adeguatamente sviluppato, perlomeno per quanto riguarda il panorama italiano. Permangono ancora diffidenze, purtroppo anche tra educatori e operatori sanitari, che perpetrano un atteggiamento sfavorevole all’intervento in età prescolare. Per quanto in letteratura si incontrino voci molto autorevoli che sostengono una tale linea di condotta – basti pensare alla teoria diagnosogenica di Wendell Johnson (1942) – l’orientamento attuale della comunità scientifica internazionale volge più decisamente verso l’abbassamento dell’età di accesso al trattamento. I fattori attivi che incanalano in tale direzione sono numerosi; proviamo a spiegarli, almeno in parte, senza alcuna pretesa di completezza.
Un primo aspetto è richiamato proprio da ciò che sottintendeva la famosa frase attribuita a Wendell Johnson "Lasciate stare i bambini che balbettano", un’affermazione evidentemente ispirata dalla preoccupazione che, un’azione terapeutica scorretta, potesse peggiorare la condizione del piccolo balbuziente. Se un modo così spicciolo di regolare le risposte ambientali nocive per la fluidità, poteva andare bene negli anni quaranta, attualmente le potenzialità di aiuto degli operatori sono significativamente aumentate, grazie a programmi di counselling e parent training alimentati da esperienze consolidate e rigorose ricerche (Onslow, 2001; Onslow e Packman, 1999; Onslow et al.,1996; Onslow et al., 1997; D’Ambrosio, 2005), pertanto possiamo sostenere con buona ragione, che la cautela insita nella prescrizione di ritirare l’attenzione dalla balbuzie del bambino, avanzata dagli studiosi del secolo scorso, già da diversi anni trova una più felice realizzazione in questi programmi di intervento. In pratica, l’azione di sostegno e di indirizzo che si sviluppa con molti genitori interessati ad agire direttamente, che li aiuta a conoscere e ad adottare stili comunicativi e programmi di comportamento atti a rinforzare il parlare fluido del bambino, può risultare più incisiva di altre scelte diversamente orientate, ma comunque tese a distogliere l’attenzione parentale dalla disfluenza. In questo modo si mette in moto una risposta attiva al disturbo del bambino, in alternativa alla rassegnata e fatalistica indifferenza implicata nella posposizione dell’intervento.
Un secondo impulso verso l’intervento precoce è dato dal grande contributo che il complesso delle discipline e delle tecniche di indagine afferenti alle neuroscienze, ha apportato nei processi di comprensione del disturbo. Emerge con sempre maggiore chiarezza che le persone balbuzienti mostrano organizzazioni neuropsicolinguistiche differenti rispetto ai normofluenti (De Nil et al., 2001; De Nil et al., 2000; De Nil et al., 2003; Fox et al., 1996; Kroll et al. 2001; Sommer et al., 2002; Moore e Haynes, 1980; Moore e Lang 1977). Questo dato corregge impostazioni eziologiche eccessivamente centrate su cause socio-ambientali, come è appunto inquadrabile la teoria diagnosogenica, e diverge anche dalle concezioni ezipatogenetiche basate prevalentemente su dinamiche conflittuali inconsce (Fenichel, 1951). Tantopiù, che alcuni studi riportano, come uno degli effetti a lungo termine di un buon trattamento, proprio la riorganizzazione del funzionamento neuropsicolinguistico della persona balbuziente (De Nil et al., 2003). Se consideriamo questi argomenti insieme ad una quantità di ricerche che riferiscono un’ampia familiarità ricorrente nei casi di balbuzie (per una rassegna vedi Yairi et al., 1996), le quali dimostrano anche in una qualche misura l’attività di un fattore di predisposizione verso il disturbo, appare sensato investire nello sviluppo di interventi anticipati che utilizzino la maggiore plasticità del sistema nervoso infantile e che favoriscano l’apprendimento di un linguaggio fluido in età precoce.
Infine, già a partire dagli anni ottanta sono andati a delinearsi in modo più definito i criteri di distinzione tra quelle che possono essere delle normali disfluenze evolutive e dei veri e propri segni di balbuzie (Yairi e Lewis, 1984; Gregory, 1986; Gregory,1990), per cui la capacità degli operatori di individuare i casi a più alta probabilità di cronicizzazione del disturbo si è ulteriormente affinata negli anni.
Proseguendo su questa rotta però ci approssimiamo ad un altro punto critico. L’abbassamento dell’età di accesso al trattamento apre la strada al rischio di proporre troppo anticipatamente tecniche di intervento nate per altre età, che presuppongono un modello di funzionamento del linguaggio completo nello sviluppo accanto ad una emotività più evoluta, così come già si opera rivolgendosi alla terza infanzia e all’adolescenza, e ancor di più per gli interventi studiati per gli adulti.
La consapevolezza della fluidità, il controllo emotivo, l’auto-rappresentazione di efficacia personale, le abilità di ragionamento, le competenze metalinguistiche e metacognitive, le abilità di letto-scrittura, sebbene a volte carenti, sono le risorse coinvolte e stimolate nel trattamento dei balbuzienti più grandi. Se sono ricchezze disponibili, diventano strumenti da gestire strategicamente. Viceversa, se scarseggiano, sono di fatto le abilità da sostenere. Un programma di intervento basato su tali abilità è precluso in gran parte ai bambini ancora nell’età della seconda infanzia. Ma il non disporre ancora di tali risorse non significa che bisogna attendere i fatidici 7-8 anni per accedere al trattamento. Anzi per altri aspetti l’azione precoce può addirittura essere più efficace degli interventi che sarebbero condotti solo successivamente al raggiungimento di età maggiori (Jones et al., 2000). La condizione però è che vengano proposti programmi adatti al grado di funzionamento del bambino nelle aree considerate, nonché a tutte le altre prerogative dell’età.

La rappresentazione cognitiva della dimensione fluidità/disfluenza
Probabilmente la balbuzie è uno dei pochi disturbi evolutivi in cui le definizioni primaria e secondaria sono a volte utilizzate più per delineare il grado di consapevolezza del disordine (Bassi e Canella, 1968) che la sua storia evolutiva, come invece avviene con altri disturbi . Naturalmente il passaggio da balbuzie primaria a secondaria seguirebbe anche la corretta sequenza ordinale, ma sarebbe sancito soprattutto dalla presa di coscienza della propria disfluenza. Una lettura evolutiva in questa chiave può portarci comunque a risultati paradossali in cui un bambino che manifesta consapevolezza della disfluenza, malgrado non abbia ancora completato l’evoluzione linguistica, sarebbe in una condizione di balbuzie secondaria (diversi bambini balbuzienti intorno ai cinque anni già manifestano consapevolezza del disturbo), mentre un adolescente che non si rende conto di balbettare, e al quale non è mai stato detto che balbetta , per quanto concerne gli aspetti cognitivi, sarebbe in una fase di balbuzie primaria, almeno fino alla presa di coscienza della disfluenza. Nella pratica il paradosso è sciolto dalla consuetudine di non ricorrere più alla distinzione tra balbuzie primaria e secondaria a partire dai 6-7 anni di età. Tuttavia si permane all’interno di questo paradosso, quando si opta per rinviare il più possibile il trattamento, nel timore di svegliare la coscienza del piccolo balbuziente sulla propria condizione, facendo evolvere negativamente il disturbo. In realtà le cose non stanno proprio così ed è erroneo vedere il balbuziente come una sorta di re nudo. Semplicemente, i piccoli balbuzienti concepiscono la fluidità/disfluenza alla maniera in cui è loro consentito. Vediamo come ciò avviene, e soprattutto, in che modo questa cosa può essere utilizzata per migliorare i programmi di intervento precoce.
Partiamo da una prima osservazione. Un bambino piccolo non può ancora contare su un grado di evoluzione mentale capace di esplicitare le cognizioni relative al proprio funzionamento linguistico.
I modelli dello sviluppo cognitivo infantile, ammettono che posizioni evolutive molto immature difettano nella capacità di operare intenzionalmente sull’abilità considerata. Nel nostro caso, la rappresentazione esplicita della fluidità, nei termini della consapevolezza dell’esperienza del parlare fluido, nonché l’accesso alla verbalizzazione relativa alla stessa, sono parzialmente presenti nella seconda infanzia e comunque, anche quando si intravedono elementi positivi in tale direzione, restano nel novero di abilità scarse, insufficienti per sostenere un trattamento centrato prevalentemente su di esse. In altre parole, la semplicità di elaborazione dell’infanzia nel computo delle informazioni linguistiche, comporta oltre alle ben note caratteristiche di un linguaggio in evoluzione, anche la ridotta disponibilità di strumenti cognitivi per rappresentarsi ed elaborare la fluidità/disfluenza, e di conseguenza, esclude di fatto il controllo volontario della scorrevolezza dell’eloquio. Anche quando in seguito il piccolo balbuziente manifesta consapevolezza della propria disfluenza, passa ancora altro tempo prima di poter riuscire a regolare il proprio flusso attraverso autoistruzioni ed altri atti intenzionali, diretti ad intervenire sui parametri linguistici concettualizzati nel corso degli anni. Adottando un modello di sviluppo cognitivo a stadi come quello di Piaget (1977), potremmo ritenere che per agire intenzionalmente sulla propria fluidità il bambino debba raggiungere un determinato periodo evolutivo, nello specifico lo stadio operatorio concreto, condizione necessaria per mettere in relazione i concetti di abilità, di impegno personale diretto all’ottenimento di una buona prestazione, e la cognizione della fluidità/disfluenza.
In ogni modo, l’assenza di verbalizzazioni e di operazioni intenzionali relative alla scorrevolezza di eloquio da parte del bambino, indica solo che il piccolo non elabora in modo evoluto in quest’area, ma non esclude gradi di rappresentazione più semplici della fluidità/disfluenza nelle modalità tipiche degli stadi precedenti. D’altro canto una lettura dell’evoluzione infantile strettamente stadiale può risultare fuorviante per i nostri scopi, poiché dovremmo attenderci che, una volta raggiunto lo stadio operatorio concreto, il bambino diventi capace di effettuare le opportune trasformazioni per mantenere un eloquio fluido. Eppure questo non accade. Si dovrebbe dunque dedurre che, se la fluidità resta al di fuori dell’evoluzione di un bambino che ha raggiunto lo stadio operatorio , essa per una qualche ragione oscura, è al di fuori dell’influenza del funzionamento cognitivo per cui tale sistema non può mediare l’azione con interventi correttivi. In realtà le cose stanno in modo diverso, e un bambino balbuziente, a partire da un certo grado di evoluzione in poi, può benissimo prendere il via dalla comprensione per mettere in atto azioni che lo portano a parlare fluidamente.
Se adottiamo un punto di vista più aperto alla modularizzazione negli specifici domini (linguaggio, abilità matematiche ecc…), e microdomini (come può essere una funzione linguistica circoscritta quale la fluidità), possiamo più facilmente contemplare le eccezioni al periodo evolutivo, ed ammettere per i diversi domini la stazione in fasi evolutive differenti. Il modello della Ridescrizione Rappresentazionale (RR) della Karmiloff-Smith (1995) si muove più decisamente in tale direzione e individua i passaggi nei quali una cognizione si rinnova nella rappresentazione mentale con gradi che vanno da una prima fase di padronanza implicita (fase I) a periodi successivi in cui la cognizione passa a gradi di esplicitazione più evoluti (fasi E/1, E/2, E/3) fino alla sua evoluzione finale della consapevolezza verbalizzata. Ciò rende più agevole il tenere conto del modo in cui, le rappresentazioni del bambino in un campo, divengono progressivamente manipolabili e flessibili, in rapporto a come le informazioni sono codificate dal sistema cognitivo del soggetto in evoluzione. Specificamente al campo di interesse di questo lavoro, possiamo riconoscere la fluidità nella prima esperienza solo come una cognizione implicita (fase I), cioè riscontrabile esclusivamente nel fatto che la vediamo direttamente in azione nell’espressione della parola fluida, quando essa è presente. In questa chiave di lettura il bambino piccolo può parlare fluido in ragione di una padronanza comportamentale e non come controllo intenzionale della regolarità del flusso. Se questa è la via alla scorrevolezza della parola nella forma più semplice, allora essa è suscettibile di regolazione partendo da condizionamenti esterni, e quindi si prospetta la possibilità di sostenere una fluidità in modo “rispondente”. In pratica, se vogliamo portare un bambino piccolo verso un eloquio più fluido, dobbiamo indirizzarci con maggiore risolutezza verso programmi di intervento operanti, cioè più vicini alle metodologie comportamentali ortodosse. In effetti, l’intervento operante richiede solo che il bambino, nel corso del suo eloquio, sia capace di produrre almeno una percentuale di parole fluide che possano essere rinforzate sistematicamente dall’ambiente con opportuni programmi. Ciò non vuol dire che interventi del genere tagliano fuori modalità di rappresentazione della fluidità più evolute. Proverò a spiegare questo concetto prendendo ad esempio il caso di una mamma che "rinforza" il figlio, il quale ha appena espresso fluidamente una parola che in precedenza è stata più volte balbettata, dicendo al piccolo "Bravo, stavolta l’hai detta proprio bene". Il bambino ascoltando il proprio genitore complimentarsi con lui per la buona prestazione, è facilitato anche nella costruzione dell’idea di fluidità. Ciononostante, l’intervento non la presuppone e, soprattutto la cognizione non viene costruita concentrando l’attenzione sulla disfluenza.
Avanzando di un gradino nel modello della Karmiloff-Smith (fase E/1) già ci avviciniamo ad una rappresentazione parzialmente manipolabile, in cui il bambino inizia ad essere guidato da riferimenti interni con il sostegno di un sistema cognitivo più flessibile. Riportandoci alla balbuzie, il primo passo lo rileviamo quando il bambino disfluente mostra di essere capace di fare qualcosa che gli permette di parlare fluidamente. Un esempio appropriato potrebbe essere il bambino balbuziente che, nel giocare alla "maestra" o nel recitare la parte dell’orco, parla fluidamente senza mostrare ancora una chiara coscienza della sua fluidità/disfluenza. La permanenza del bambino balbuziente in tale fase può suggerire l’adozione di programmi che possano portare il piccolo a produrre fluidità, scavalcando gli ostacoli determinati dall’inconsapevolezza della fluidità/disfluenza e dall’impossibilità di comunicare efficacemente con lui sull’argomento, così come richiede un intervento direttamente orientato alla strutturazione del controllo volontario della fluidità. A questo punto si aprono possibilità di intervento precoce oltre il counselling, non solo nel contesto della terapia del linguaggio, ma pure in relazione all’introduzione di attività più specificamente indirizzate al sostegno delle abilità linguistiche, anche all’interno di trattamenti di psicomotricità, essendo quest’ultimo un ambito sempre di più utilizzato per la cura dei disturbi del linguaggio in età infantile (Vertucci e Scuccimarra, 2003) e più distintamente per interventi rivolti alla fluidità di eloquio (Dinville, 1982; Ingenito e Infranzi, 1999). Giochi di ruolo, giochi con pupazzi, marionette e mariotte, giochi orientati alla coordinazione motoria/verbale e molte altre attività capaci di sostenere e automatizzare l’espressione fluida della parola, possono trovare casa in diversi settori educativi o riabilitativi (D’Ambrosio, 2001; D’Ambrosio, 2005).
Un ulteriore avanzamento verso l’esplicitazione cognitiva della fluidità, lo riscontriamo laddove il piccolo balbuziente mostra segnali riconducibili ad una più chiara volontà di controllare in qualche modo il flusso, pur non riuscendo ancora a fornire un resoconto verbale della sua prestazione (fase E/2). Le autocorrezioni, la sospensione della parola balbettata, seguita poi da una pausa in cui si suppone sia stato ripianificato l’enunciato, e poi ancora da una ripresa fluida, i segnali di frustrazione, rabbia e vergogna in concomitanza con la disfluenza, indicano l’insorgere di una coscienza embrionale dell’evento disfluente, anche quando il piccolo non è ancora capace di riferire cosa ha determinato la sua reazione. Ancor di più in questa fase valgono gli effetti delle esperienze facilitanti, almeno come consapevolezza emergente della fluidità accanto alla disfluenza.
Il punto di approdo della cognizione nella RR è il momento in cui la conoscenza è riformulata in codice comune al sistema complessivo (fase E/3) e diventa accessibile alla rappresentazione verbale in modo da favorire la comunicazione riferita all’abilità. Inoltre, in questa fase diventa possibile acquisire la conoscenza anche direttamente in forma linguistica. Non possiamo quindi pensare di insegnare ad un bambino come agire direttamente sulla scorrevolezza di eloquio prima che le sue esperienze non abbiano trovato la strada della rappresentazione interna più flessibile, e forse questo può essere un vero e proprio obiettivo da perseguire anche nel corso della terapia. Solo quando giungiamo ad una ridescrizione della fluidità/disfluenza nel linguaggio comune al sistema generale, diventa possibile introdurre in modo proficuo azioni istruttive nel programma di trattamento, le quali possono essere più precisamente dirette verso la regolazione intenzionale del flusso di eloquio. Naturalmente se le istruzioni e le elaborazioni proposte riguardano abilità a latere la cognizione di fluidità (l’attenzione, la memoria, la gestione del pensiero, la gestione delle emozioni, ecc…) bisogna giungere, anche per quanto riguarda questi altri domini, a fasi evolute di rappresentazione, affinché siano tutte convogliate in un sistema integrato di elaborazione e gestione della fluidità.

Conclusioni
Attualmente l’intervento precoce è forse lo spazio terapeutico che presenta le maggiori potenzialità di crescita. Tuttavia, lo sviluppo di quest’approccio richiede il superamento dei pregiudizi relativi all’effetto della consapevolezza del sintomo sulla cronicizzazione della balbuzie. Abbiamo cercato di affrontare l’argomento scevri da preconcetti, lasciandoci guidare oltre che dall’esperienza, anche dal confronto teorico coi modelli di sviluppo cognitivo più accreditati, con i quali la cognizione della fluidità/disfluenza si deve rapportare nel corso della seconda infanzia. Superato questo ostacolo, si apre la strada verso prospettive terapeutiche che mirano a periodi evolutivi degni di ben altra considerazione. La conoscenza della fluidità, man mano che si struttura, fa da volano agli interventi che si susseguono, a condizione che siano proposti nel modo adeguato. Abbiamo cercato di presentare le nostre ragioni a sostegno dell’idea che il legittimo bisogno di risparmiare turbamenti al bambino, è tutt’altro che in contrasto con esperienze che permettono al piccolo di produrre e riconoscere la fluidità. Quando questo si trasforma in un intervento efficace, i vantaggi diventano più che evidenti. Da uno studio longitudinale condotto da Onslow e Packman (1999) sappiamo che i risultati ottenuti con un programma di parent training condotto con genitori di bambini balbuzienti in età prescolare sono stati mantenuti nel tempo, con assenza di recidive, anche a distanza di sette anni dalla conclusione del trattamento. In un’altra ricerca condotta da Jones, Onslow, Harrison e Packman (2000) è risultato, sulla base dei dati di 250 casi seguiti, che il numero di sedute impiegate per il completo svolgimento di un programma di questo tipo è di circa la metà, rispetto a interventi condotti in età maggiore nei quali sono trattati direttamente i balbuzienti.
Naturalmente, l’apparente semplicità di azione di alcuni programmi di intervento precoce, potrebbe a sua volta condurre fuori strada, se non sostenuta da una specifica formazione degli operatori interessati. Il terapeuta che accompagna una coppia di genitori verso un cambiamento radicale del proprio atteggiamento nei riguardi della balbuzie del figlio, deve avere molte frecce al proprio arco per centrare l’obiettivo. Dubbi, incertezze, convinzioni disfunzionali, emozioni spiacevoli, abitudini consolidate, contesti educativi complessi di famiglia allargata, attribuzioni di colpa, pregiudizi, sono solo una parte dei problemi che si incontrano seguendo coppie di genitori di bambini balbuzienti. Sono queste in fondo le incognite eluse dall’attendismo, ma che invece sono i nodi da sciogliere al più presto, quando si dispone degli strumenti adatti per affrontarli. Questi strumenti ci sono. Usiamoli.

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